In questo articolo voglio concentrarmi su un tema spesso discusso ma altrettanto spesso frainteso: l'impatto dei costi della consulenza finanziaria indipendente, che in genere si aggirano intorno all’1% annuo.
Scelgo deliberatamente di tralasciare il mondo dei promotori finanziari (in legalese "consulenti finanziari abilitati all'offerta fuorisede"), i costi associati alla promozione sono infatti appesantiti da marketing, strutture piramidali e una lunga catena di soggetti da remunerare, che porta facilmente a caricamenti complessivi del 2–3% o più: livelli chiaramente insostenibili per il risparmiatore. A fronte di tali costi, il “servizio” si riduce troppo spesso alla vendita di prodotti della casa, un attività il cui valore reale per il cliente finale è quantomeno discutibile.
Uno degli argomenti più ricorrenti tra i social dedicati alla finanza è la critica alle commissioni dei consulenti finanziari. Il bersaglio preferito è la classica fee dell’1% sugli Asset Under Management (AUM), descritta come uno dei maggiori “distruttori di ricchezza” della storia moderna. Non mancano calcolatori che proiettano questo 1% su 30-40 anni, mostrando come possa “mangiare” fino a un quarto del capitale finale.
È una narrazione potente, costruita per colpire e che spaventa terribilmente molti investitori retail.
Tuttavia, c’è un aspetto fondamentale — matematico e logico — che raramente viene messo in discussione quando si presentano questi dati. L’errore non è tanto nei numeri in sé, quanto nel metodo con cui sono generati e interpretati.
Ramit Sethi è uno dei divulgatori finanziari più noti negli Stati Uniti e tra i critici più vocali del modello tradizionale di consulenza finanziaria. Molte delle sue idee vengono spesso riprese (a volte inconsapevolmente) anche dai divulgatori italiani.
Il cuore del suo ragionamento non riguarda semplicemente “quanto pago ogni anno il mio consulente”, ma un confronto concettuale tra due percorsi d’investimento quasi identici:
Scenario A: un portafoglio gestito con un consulente che applica una commissione annuale sul patrimonio (AUM).
Scenario B: lo stesso portafoglio, ma gestito in autonomia, senza costi ricorrenti.
L’ipotesi di base è che, al netto della commissione, tutto il resto rimanga uguale: asset allocation, ribilanciamenti e scelte d’investimento. A questo punto si calcola: se non avessi pagato la fee, quanto varrebbe oggi il tuo capitale? E quanto vale, invece, avendola pagata ogni anno?
La differenza generata nel tempo rappresenta il “costo cumulativo” della consulenza: non una semplice somma delle commissioni pagate, ma il valore che quei soldi avrebbero raggiunto se fossero stati investiti insieme al portafoglio.
Sethi porta poi questo ragionamento all’estremo, proiettando il costo cumulativo fino all’età pensionistica ipotizzando un rendimento costante di mercato (tipicamente 7–8% annuo). Il risultato è spesso una percentuale impressionante rispetto al patrimonio finale: quel “solo 1% all’anno” può trasformarsi, nel lungo periodo, in una cifra che spaventa, talvolta nell’ordine di decine o centinaia di migliaia di euro.
Immagina un investitore che parte con un portafoglio da 2 milioni di euro e paga una commissione dell’1% all’anno sul patrimonio. Dopo 35 anni — assumendo rendimenti costanti — il capitale finale nello scenario senza commissioni potrebbe essere pari a X, mentre nello scenario con commissioni risulterebbe significativamente più basso. La differenza tra i due valori viene spesso presentata come “quanto hai pagato al tuo consulente”: poniamo, 380.000 euro.
Sethi però precisa un punto importante: non hai mai versato realmente 380.000 euro in contanti. Nel corso degli anni hai pagato un flusso di commissioni, che nel complesso potrebbe ammontare, ad esempio, a 167.000 euro distribuiti su 35 anni — in molti casi meno di 5.000 euro all’anno nella prima decade.
La cifra più alta emerge solo quando consideri il costo opportunità. Se quel flusso di commissioni fosse rimasto nel portafoglio, avrebbe generato a sua volta rendimento composto. È per questo che Sethi “capitalizza” le fee, trasformandole in un valore ben più elevato: non 167.000 euro pagati, ma 380.000 euro di crescita potenziale “persa”.
In altre parole: non è solo ciò che hai pagato, ma ciò che avresti potuto ottenere se quei soldi avessero lavorato per te.
La strategia argomentativa di Sethi si basa su una scorciatoia matematica: capitalizzare retroattivamente le commissioni usando un rendimento di mercato ipotetico, spesso irrealistico. Questo produce un’impressione gonfiata del “costo reale” della consulenza, con effetti fuorvianti su più livelli.
1. Il costo opportunità è un’ipotesi arbitraria
Applicare un rendimento del 7–8% annuo a ogni singola commissione presuppone che l’investitore:
avrebbe risparmiato e reinvestito integralmente ogni euro di fee,
avrebbe ottenuto rendimenti costanti e lineari,
non avrebbe modificato asset allocation, né sostenuto tasse o costi ulteriori,
avrebbe sempre mantenuto la disciplina del fai-da-te senza errori.
In sostanza, si assume un investitore perfetto, razionale e impeccabile. È un’ipotesi forte — spesso lontanissima dalla realtà.
2. Trasforma qualunque spesa in “perdita di capitale futuro”
Il metodo di Sethi — capitalizzare ogni euro speso come se fosse stato investito — può essere applicato a qualsiasi voce di spesa: auto, mutuo, pannolini, latte, vacanze, università, perfino un caffè al bar.
Se ci comportassimo coerentemente, scopriremmo che quasi tutte le spese della vita “erodono” il patrimonio finale, solo perché quei soldi avrebbero potuto essere investiti.
Accettare questa logica significa considerare ogni acquisto come un nemico del patrimonio futuro — e non solo la fee del consulente. Il che diventa rapidamente assurdo.
3. Presume (implicitamente) che il valore della consulenza sia pari a zero
Il confronto di Sethi dà per scontato che ciò che si paga al consulente non generi alcun ritorno reale. Ma questa è un’assunzione arbitraria: ignora completamente il potenziale valore aggiunto del servizio.
Un consulente competente può contribuire attraverso:
ottimizzazione fiscale e gestione delle minusvalenze,
ribilanciamenti coerenti con il rischio,
definizione dell’asset allocation in base a obiettivi e orizzonti temporali,
supporto comportamentale nei momenti difficili (evitare panico, market timing, errori emotivi),
pianificazione finanziaria completa: pensione, successione, coperture assicurative, obiettivi di lungo termine.
Questi elementi hanno un valore economico concreto, talvolta superiore alla fee pagata. Ignorarli “per definizione” — come fa il modello di Sethi — è una distorsione logica che rende il confronto fuorviante.
Immagina di applicare lo stesso metodo di Sethi non alle commissioni di consulenza, ma a una normale spesa quotidiana — un cappuccino, ad esempio — o a costi ricorrenti come pannolini, latte, auto, vacanze. Se capitalizzi ogni euro speso al rendimento di mercato fino all’età pensionabile, molte di queste voci “risulterebbero” responsabili di una porzione significativa del tuo mancato capitale finale, spesso con percentuali a due cifre.
Seguendo questa logica, qualunque spesa — anche la più banale — diventa automaticamente “colpevole” di erodere il tuo patrimonio pensionistico. La conclusione implicita è paradossale: per massimizzare il capitale a fine carriera, dovremmo vivere come asceti, rinunciando a quasi tutto per decenni.
Per fare un esempio concreto: 2 € di caffè alla settimana “corrisponderebbero” a circa 11.800 € di mancati rendimenti, assumendo un rendimento composto dell’8% annuo per 30 anni.
Questo tipo di ragionamento mostra tutti i suoi limiti quando lo si applica a spese che consideriamo normali, necessarie o persino desiderabili. Se accettassimo integralmente la logica di Sethi, dovremmo mettere sotto accusa anche il latte quotidiano, l’auto comprata ogni dieci anni, gli studi universitari o una vacanza di tanto in tanto.
Eppure non lo facciamo — perché sappiamo che vivere ha un costo, e molte spese non sono “errori finanziari”: fanno parte di una vita equilibrata, sana e sostenibile.
Il fulcro dell’errore metodologico è l’ipotesi che pagare un consulente equivalga a non ricevere nulla in cambio. Questo è una semplificazione estrema — e spesso falsa.
Nel caso di corsi, servizi, consulenze, può benissimo esserci un ritorno reale: un guadagno aggiuntivo, una migliore struttura finanziaria, scelte più consapevoli, risparmi fiscali, minore stress, protezione nei momenti difficili.
Ad esempio, se un corso o una consulenza portano anche solo un incremento di reddito — o un risparmio fiscale — di qualche migliaio di euro all'anno, l’investimento può rivelarsi vantaggioso nel medio/lungo termine.
Nel caso dei consulenti finanziari “veri” — fee-only, indipendenti, trasparenti — è plausibile che offrano un valore aggiunto reale, ben oltre la semplice gestione del portafoglio: pianificazione, diversificazione, ribilanciamenti, protezione, monitoraggio.
Il vero punto debole del metodo di Sethi è l’assunzione implicita secondo cui pagare un consulente equivale a non ricevere nulla in cambio. Si tratta di una semplificazione estrema — e nella maggior parte dei casi infondata.
Nel mondo reale, corsi, servizi e consulenze possono generare un ritorno concreto:
maggiori guadagni o un incremento del reddito,
migliore organizzazione finanziaria,
scelte d’investimento più consapevoli,
risparmi fiscali,
minore stress e maggiore disciplina,
supporto nei momenti critici dei mercati.
Se un corso o una consulenza aiutano una persona a guadagnare — o risparmiare — anche solo qualche migliaio di euro all’anno, l’investimento può risultare molto vantaggioso nel medio-lungo termine.
Studi indipendenti, non collegati a Sethi, stimano che la consulenza finanziaria ben fatta possa generare un valore aggiunto tra l’1,5% e il 3,0% annuo sul rendimento complessivo del cliente, grazie a scelte più efficienti e comportamenti più disciplinati.
E anche se questo valore fosse solo una frazione — ad esempio lo 0,5–1% — il “costo reale” della consulenza sarebbe molto più basso rispetto a quello suggerito dalla metodologia matematica di Sethi, che ignora del tutto il beneficio ottenuto dall’investitore.
La paura di “pagare l’1%” porta molti risparmiatori a rifugiarsi nel fai-da-te, convinti che basti acquistare qualche ETF per gestire in autonomia i propri investimenti.
Sebbene sia possibile, costruire un portafoglio è più complesso di quanto alcuni vogliono far sembrare: significa partire da un’analisi seria delle proprie esigenze, della capacità di risparmio, della tolleranza al rischio e degli obiettivi temporali, per poi tradurre tutto questo in un’asset allocation coerente. Serve inoltre sapersi orientare tra centinaia di ETF e obbligazioni quotate, selezionando quelli realmente efficienti, evitando duplicazioni, sovrapposizioni inutili e prodotti poco adatti al proprio profilo.
E una volta costruito il portafoglio, il lavoro non finisce: è necessario seguire un piano di ribilanciamento, gestire ingressi e disinvestimenti, controllare la deriva delle allocazioni e monitorare che la strategia resti allineata agli obiettivi, aggiornandoli periodicamente.
E' altresì necessario tenersi informati sull'andamento generale dell'economia, che può modificare i fondamentali degli asset in cui si investe. Per esempio, la solidità delle obbligazioni è fortemente legata al ciclo dei tassi, così come le valutazioni azionarie hanno un impatto sui ritorni attesi nel lungo termine. Questo solo per fare due esempi di immediata comprensione.
La gestione autonoma rischia di essere inefficiente non perché l’investitore non sappia “cliccare compra”, ma perché spesso mancano metodo, continuità e un quadro strategico chiaro. L’emotività, poi, amplifica tutto: molti neo investitori conoscono perfettamente il funzionamento degli ETF, ma si rendono conto di accumulare troppe idee di investimento, di farsi influenzare dalle notizie del momento e di cadere in errori comportamentali ricorrenti. Sono ottimi esecutori, ma non sempre buoni architetti.
Ed in questi frangenti una consulenza strutturata può fare la differenza, traducendosi in un alpha concreto sia in termini di rendimento che organizzativi.
Il metodo di Sethi — che “gonfia” i costi passati capitalizzandoli a tassi di mercato e li confronta con il patrimonio pensionistico — è, prima di tutto, uno strumento di persuasione. Funziona benissimo sul piano emotivo: è immediato, visivamente d’impatto e induce la reazione istintiva “Sto pagando troppo!”.
Tuttavia, dal punto di vista matematico e logico, risulta fuorviante. Si basa su assunzioni irrealistiche, presuppone una gestione fai-da-te impeccabile, ignora del tutto il valore aggiunto della consulenza e non distingue tra una spesa di consumo e un investimento in competenze o servizi.
Una scelta davvero consapevole — e responsabile — non può appoggiarsi su questo tipo di scorciatoia. Richiede una valutazione molto più completa, che tenga conto di:
la complessità del portafoglio,
gli obiettivi di lungo termine (pensione, eredità, diversificazione, protezione),
il tempo, la disciplina e le competenze che l’investitore è effettivamente disposto a dedicare,
la qualità del consulente: indipendenza, trasparenza, modello fee-only, orientamento al valore,
il beneficio reale, anche non immediatamente quantificabile, in termini di pianificazione, gestione del rischio, protezione comportamentale, risparmio di tempo e riduzione dello stress,
la distanza tra il livello di competenze dell’investitore retail e quello di un professionista.
Per molti investitori, la commissione AUM non è un “nemico” da demonizzare, ma il prezzo di un servizio. E come qualunque servizio di qualità, può non solo essere giustificato, ma anche ripagarsi ampiamente nel tempo — a condizione che sia erogato con competenza, indipendenza e allineamento di interessi.